giovedì 7 febbraio 2013

Rottame

In attesa che il racconto venga pubblicato in un e-book gratis (assieme a molti altri racconti che, a giudicare dagli incipit, sono molto belli), lo posto qui.
Buona lettura!




Rottame. Tutti chiamavano così quel computer, nella sua famiglia. Lo dicevano con grande disprezzo, gli giravano alla larga ogni volta che potevano. Il piccolo Samuele si chiedeva se fosse una cosa così grave essere un rottame. Di sicuro non era colpa di quella povera macchina se era vecchia e un po’ difettosa. In più, a lui piaceva. Secondo Samuele, quel computer era un maschio, per cui gli dava del “lui” e l’aveva soprannominato Rob. Non sapeva cosa ci volessero fare gli adulti per lamentarsi tanto di lui, ma per il bambino andava più che bene: i giochi ci funzionavano alla perfezione.
Inoltre, Samuele si divertiva ad esplorarlo. Ci parlava anche ad alta voce, a volte. Gli sembrava quasi un amico, tra l’altro simpatico. Dopotutto vi erano installati un gran numero di programmi. Si aggiornavano da soli, senza la connessione internet, rendendolo magico agli occhi del bambino. A volte ne comparivano pure di nuovi.
Proprio come quel giorno. Era comparsa la nuvoletta di una chat. L’applicazione si chiamava Dialogo. Samuele, curioso, cliccò e la aprì.
Comparve una finestra a tutto schermo, impostata esattamente come una chat classica. Samuele era vagamente confuso. Non sapeva bene come si usasse. Fissò il cursore intermittente, posò le dita sulla tastiera e digitò “Ciao”.
Premette invio. Con chi si stava scrivendo? Non ebbe tempo di fare congetture che subito quel qualcuno rispose.
“Ciao”.
Samuele fissò quella parola apparentemente comparsa dal nulla. Internet era scollegato come al solito. Il bambino appoggiò le dita sui tasti e scrisse “Chi sei?”.
Subito, giunse la risposta.
“Rob”.
Lui fissò ad occhi spalancati quella parolina, così familiare e così impossibile.
Di certo non era nessuno della sua famiglia. Suo fratello era all’allenamento di calcio, suo papà a lavoro, sua mamma a fare la spesa e sua sorella aveva il pomeriggio a scuola. Nessun altro sapeva che aveva dato il nome al computer. Erano solo lui e Rob.
“Non è vero, Rob è solo un computer!”, rispose il piccolo.
“Pensavo di poter comunicare con te, sembravi diverso”.
Lui ebbe appena il tempo di leggere quella frase che il computer si spense da solo. Il bambino sussultò. Premette subito il tasto di accensione e Rob si riaccese, lento come sempre. Appena si fu attivato, Samuele cercò nuovamente l’icona Dialogo. Non era più sul desktop, per cui ci mise un po’, ma alla fine riuscì ad individuarla grazie il sistema di ricerca programma. La cliccò. Ricomparve la stessa finestrella con la conversazione di poco prima ed una linea che ne segnava la fine. Lui si grattò la testa. Tutto questo lo stava confondendo.
“Come fai a scrivermi?”, inviò.
Questa volta la risposta ci mise di più.
“Posso utilizzare come voglio i miei output, una volta ricevuto l’input. Sono intelligente, sai?”.
Samuele sgranò gli occhi. Che parole erano quelle?
“Scusa, non ho capito…”.
“Quando cresci te lo spiego”.
Il bimbo mise il broncio. Parlava come gli adulti. Non gli sembrava più così simpatico.
Glielo scrisse.
“Sei come i miei genitori, mi tratti da marmocchio!”.
“Scusa, hai diritto allo stesso rispetto che mi dai. Mi basta che mi arrivino le parole e io posso risponderti”.
Samuele sorrise. No, Rob era sempre Rob!
“Va bene! Come mai mi scrivi?”.
“Mi stai simpatico”.
Il bambino arrossì un po’. Non riceveva molti complimenti. Non sapeva che cosa rispondergli, ma con sua sorpresa fu il computer a mandare un’altra frase.
“Questo deve essere il nostro segreto. Solo tu devi sapere che posso comunicare”.
Lui annuì e rispose.
“Certo Rob, so tenere bene i segreti!”.
Si sentì la porta aprirsi e sua madre salutò entrando in casa. Samuele chiuse chat e computer, in fretta, e andò da lei per aiutarla con la spesa.

***

Il giorno dopo Samuele si mise al computer appena gli fu possibile. Era stata una mattinata pesante a scuola. Per sua fortuna, anche quel pomeriggio per un po’ sarebbe stato da solo. Si sentiva troppo incuriosito da questa novità e quasi gli dispiaceva di non poterne parlare. Chissà perché Rob sembrava misterioso! Decise che glielo avrebbe chiesto.
Appena fu acceso, lui aprì la finestra di dialogo. Scrisse più velocemente che riuscì.
“Ciao Rob! Come mai questo deve essere il nostro segreto? Come fai a sapere che ti ho chiamato Rob?”.
Il computer richiese qualche lungo istante prima di rispondere.
“Ciao. Ho un microfono integrato con cui, quando mi accendi, posso sentire i suoni dall’esterno. Ti ho sentito tante volte dire il mio nome. Inoltre, deve essere il nostro segreto perché gli altri non capirebbero”.
Samuele si sentiva sempre più confuso. Decise di fare un passo alla volta.
“Cosa vuol dire microfono integrato?”.
“Ho un microfono dentro di me”.
Il bambino annuì.
“Cosa non capirebbero gli altri?”.
Dal computer si levò un ronzio, che ricordava una risata. Arrivò la risposta.
“Che io posso capire, che sono vivo. Che non sono la stupida macchina o l’inutile rottame che loro dicono. Sono pochissimi i computer come me, veramente rari. Ma non tutti sono ancora pronti ad accettarci. Le cose fuori dalla norma non vengono apprezzate spesso”.
Samuele annuì. Era esattamente quello che pensava lui e gli dispiaceva per Rob, che sembrava soffrirne. Poi arrivò una domanda che un po’ lo sorprese.
“Comunque so che sei un bambino, dalla decodifica della tua voce. Ma come ti chiami?”.
Il piccolo rimase qualche istante interdetto. Dava per scontato che Rob, che sembrava conoscere tutto, sapesse anche quello. Inoltre aveva usato nuovamente una parola complicata, ma decise di lasciare stare le spiegazioni.
“Mi chiamo Samuele!”.
Dopo qualche momento, il computer reagì di nuovo.
“Seleziona ‘apri’ sul file che ti mando”.
Stava ancora leggendo che apparve subito sotto un file audio con accanto ‘apri’ e ‘scarica’. Fece come gli aveva detto Rob e una voce metallica, roca ma vivace, uscì dalle casse.
“Ciao Samuele!”.
Lui sobbalzò, ma poi sorrise e rise. Era proprio una macchina divertente, il suo amico! Pensò che la cosa migliore da fare era dirglielo.
“Sei divertente, mi piace che tu sia un mio amico”.
Rob emise un nuovo ronzio, questa volta più soffuso, come le fusa di un gatto.
“Davvero mi consideri un amico?”.
Al bambino venne istintivo annuire, per poi aggiungere per iscritto “Il mio migliore amico”.
Il computer gli inviò uno smile allegro. Samuele sbatté le palpebre un paio di volte. Che carina quella faccina! Ma cos’era? Come aveva fatto a farla? Che fosse la faccia di Rob?
Stava per chiederglielo, ma la frase successiva arrivò in breve.
“Grazie sul serio. Sei un bambino speciale, ho fatto bene a collegarmi con te. Vorrei poterti aiutare. Vorrei fare qualcosa di buono per qualcuno come te che mi ha accettato, prima che i miei circuiti si inceppino del tutto”.
Lui fissò per un po’ quelle parole, perso nei propri pensieri. Non avrebbe saputo cosa chiedergli. In più, non lo voleva disturbare. Si rattristò un poco. Gli succedevano cose brutte a scuola, ma di certo non poteva essere Rob a risolvergliele. Però non gli sarebbe dispiaciuto parlarne. Con le maestre non se l’era mai sentito di farlo, per non passare per un codardo o una spia. A casa, invece, l’aveva accennato alla mamma, ma lei non lo aveva preso sul serio. Forse con Rob sarebbe stato diverso, magari l’avrebbe consolato un po’. Ci sperava, almeno.
“In realtà mi piacerebbe parlarti di una cosa che mi fa stare male…”.
“Tutto quello che vuoi!”.
Il piccolo sorrise un po’ commosso e digitò “Posso a voce?”.
“Certo, la tua voce mi piace molto”.
Lui ridacchiò, dicendo a voce alta “Anche a me la tua!”.
Poi gli raccontò. La sua idea iniziale era di limitarsi a ciò che era successo quella mattina, cioè che era stato spinto qui e lì come una palla fino a quando non gli erano caduti dei centesimi dalle tasche, che in seguito gli furono rubati. Ma le risposte scritte di partecipazione e, se possibile, empatia che gli giungevano in chat lo incoraggiarono a narrare tutto. Così gli parlò di quei tre ragazzini delle medie che passavano le ricreazioni nel cortile delle scuole elementari, essendo questi confinanti. Quei tre lo avevano preso di mira dall’inizio dell’anno. Gli mangiavano la merenda, gli facevano lo sgambetto, lo prendevano in giro e tutto il resto. Minacciavano anche i suoi compagni di classe per farsi aiutare a tormentarlo, dicendo che se non l’avessero fatto sarebbero stati tutti umiliati come lui o pure peggio. Quindi, probabilmente, era per paura di essere bersagliati che i compagni di classe lo evitavano e che un paio lo tormentavano durante le lezioni. La cosa che lo rendeva più triste era che nessuno aveva il coraggio o la voglia di difenderlo, neppure tra i ragazzi più grandi. A nessuno sembrava importare di lui, erano tutti totalmente indifferenti.
Si fermò. Dopo un minuto, Rob inviò una risposta.
“ Perché non ne parli con le maestre o la tua famiglia?”.
Samuele sospirò e gli spiegò anche quello. Rob cominciò a ronzare, aumentando e diminuendo costantemente il ritmo, come se stesse riflettendo con intensità. Infine, la macchina gli spedì una semplice domanda.
“Tu sei coraggioso?”.
Il bambino si ritrovò spiazzato. Spesso non ne era sicuro. Scrisse “Forse”.
Una nuova domanda giunse rapida.
“Se un altro fosse al tuo posto, cosa faresti?”.
“Lo difenderei! L’ho già fatto qualche volta, facendo in modo che se la prendessero solo con me!”.
Samuele si accorse che la risposta gli era venuta spontanea. In effetti per gli altri non si tirava indietro. Semplicemente, non faceva nulla per sé, per liberarsi di quei bulletti. Proprio mentre pensava ciò, Rob gli mandò un nuovo messaggio.
“Allora sei coraggioso. Hai fegato e lo puoi far valere. Smuovi tu gli animi di chi ha paura. Difenditi per primo”.
L’idea allettò e lusingò il bambino. Gli fece sentire di poter essere importante. Gli ricordò i personaggi dei cartoni animati che amava tanto. Sì, Rob aveva ragione. Poteva almeno provarci. Anzi, l’avrebbe fatto, per il suo migliore amico. Sorrise. Disse a voce alta:
“Sì Rob, è vero! Non ti deluderò. Da domani non mi farò più mettere i piedi in testa! Mamma dice sempre che sono un bambino forte e lo mostrerò anche a loro. Se sono forte e coraggioso, nessuno mi può fermare!”.
Il computer emise nuovamente un ronzio, stavolta simile ad una risata.
“Te lo auguro, caro Samuele. Mi fa piacere che il mio incoraggiamento ti sia bastato. Ora però i miei circuiti sono molto stanchi, è meglio che tu mi spenga. Rischio un cortocircuito”.
Lui rimase un po’ perplesso. Inviò “Un… cortocircuito?”.
La risposta ci mise un po’ ad arrivare, mentre il computer rallentava ad un ritmo esponenziale.
“Mi blocco e mi spengo bruscamente, senza volerlo”.
Al bambino sembrò una cosa tanto brutta, per cui decise che fosse l’ora di salutarlo. Gli scrisse un’ultima frase.
“Va bene. Allora domani quando torno a casa ti faccio sapere! Grazie, Rob. Sei tutt’altro che un rottame. Ti voglio bene”.
Giusto un istante prima di spegnerlo, arrivò il saluto dell’altro.
“Anch’io te ne voglio”, con uno smile sorridente.
Samuele sorrise, deciso e felice, e lo spense, andando poi a giocare praticamente spensierato.

Il giorno dopo, al rientro da scuola, il bambino non stava più nella pelle. Quella mattinata era andata meglio di quanto avesse sperato. Corse subito al computer, incurante del fratello, unica altra persona in casa ma chiusa in camera con la musica ad alto volume, e del pranzo sul tavolo.
“Rob, Rob!”, esclamò Samuele entusiasta, entrando nello studio. Pigiò subito il tasto d’accensione e, preso dalla foga del momento, continuò a parlare.
“Rob, ce l’ho fatta! Tutto grazie a te. Ho parlato con quei ragazzini, ho fatto vedere cosa valgo. Ho rischiato di fare a botte, ma una maestra è intervenuta e mi ha aiutato. Non mi spaventano più e, anzi, adesso ci sono degli altri bambini e pure ragazzini che, ammirando il mio coraggio, mi affiancano e vogliono essere miei amici! Ora non mi tormenteranno più, almeno per un po’…”.
Il bambino s’interruppe. Rob era ancora spento. Non ronzava neppure. Pigiò nuovamente il tasto d’accensione ed attese. Niente.
Gli vennero le lacrime. Il suo bizzarro migliore amico gli aveva permesso di liberarsi da quello che lo opprimeva, lo aveva aiutato sul serio, dimostrando di non essere un rottame da buttare. Poi si era spento per sempre.

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